sabato 2 febbraio 2013

INTERVENTO di DON CLAUDIO alla PONTIFICIA UNIVERSITA' LATERANENSE di Roma


Roma, 10 Dicembre 2012
INTERVENTO di DON CLAUDIO alla PONTIFICIA UNIVERSITA' LATERANENSE
nell'ambito del Convegno "INTERSOGGETTIVITA', COMUNICAZIONE, EDUCAZIONE"

La mia riflessione parte da ciò che l’esperienza mi consegna ogni giorno come cappellano dell’Istituto Penale Minorile “C. Beccaria” e come responsabile delle comunità Kayròs di Milano. Non è frutto, dunque, di un percorso di studi e di ricerca teorico-scientifica.

Il mio è un osservatorio parziale e limitato, ma egualmente capace di interpretare l’intero orizzonte giovanile con il quale l’adulto interagisce, si confronta e comunica.
Il carcere minorile può essere considerato un avamposto, un microcosmo dal quale è possibile scrutare l’universo simbolico dei giovani e della realtà stessa.
Dentro gli spazi ristretti di una cella si elaborano spesso processi comunicativi che mettono a contatto il mondo “dentro” con la realtà “fuori”; c’è una comunicazione intensa che raggiunge ed interpella il noi sociale, il noi ecclesiale, il me persona.

Il compito di un educatore o di un prete dentro un carcere minorile è proprio quello di sapere stabilire comunione con i ragazzi reclusi, con il personale educativo e con quello della sicurezza, attraverso una comunicazione efficace, perchè va detto subito: la comunicazione senza la comunione è un atto che rimane in superficie e che, se trasmette comunque informazioni, non può influire in alcun modo sul processo di crescita dell’adolescente e dell’ambiente carcerario stesso.

·               Perché un adolescente autore di reato cambi e orienti diversamente le scelte, di che tipo di comunicazione necessita?
Quale atto comunicativo è davvero in grado di trasformare l’io fragile e spavaldo di chi, in giovane età, commette reati a volte efferati, tali da indurre un settimanale italiano a titolare “Questi mostri di mamma”?

Qui si pone il problema del linguaggio che non è solo il problema del come comunico, ma anche del che cosa comunico.
E’ la questione tra le più urgenti anche della Chiesa di oggi: quale linguaggio per comunicare la fede? Gesù stesso ha compiuto scelte di linguaggio per annunciare il Regno.
La cultura occidentale si è costruita sul primato della comunicazione verbale, lasciando in ombra altri codici comunicativi non-verbali. Anche nella Chiesa, la Parola ha preso il sopravvento, anche se non va confusa la Parola di Dio con un linguaggio meramente verbale, come ci attesta l’accezione stessa di “dabar” che è semanticamente sia “parola” che “atto”.
Con adolescenti autori di reato, così come con ogni adolescente, il solo linguaggio verbale non è sufficiente a comunicare. Gli adolescenti stessi comunicano con registri molto variegati e complessi; non sanno sostenere discorsi lunghi. Le loro espressioni verbali sono spesso cifrate e sintetiche; penso al minimalismo del twitter o a locuzioni verbali che concentrano in poche parole molte sfumature espressive come “Ci sto dentro di brutto” o “Ci sto dentro un cifro”. Un educatore che si avventuri in lunghe comunicazioni discorsive è già tagliato fuori.
Il fenomeno comunicativo, così come l’intero sistema comunicativo, è sintesi di componenti diverse: aspetti linguistici (parole, intonazione, pause) e modalità extra-verbali (sguardo, gesto, mimica, movimenti di avvicinamento e di allontanamento fra gli interlocutori).
Tutto ha valore di messaggio: l’attività o l’inattività, le parole o il silenzio.
Dentro una cella comunichi con le parole, ma ancor più con lo sguardo, col silenzio, col sedere accanto, col guardare una foto o una scritta sulla parete.
Proprio la comunicazione così intesa è il luogo essenziale in cui è possibile rintracciare l’uomo nella dualità del noi, superando la logica del predominio che tanto va di moda nei dibattiti non solo televisivi. Solo una comunicazione che non si riduca a mera informazione, ma diventi meta-comunicazione, ovvero si presenti nella sua natura simbolico-effettuale, è davvero capace di generare cambiamenti, appartenenza, educazione.
Solo una comunicazione che sappia rispettare i tempi dell’altro, i tempi di silenzio e di attesa e che sappia rispettare i ritmi dell’alternanza educativa su cui è fondato il dialogo, può essere una comunicazione che incide sul piano delle relazioni e dei significati.

·               Qual è la sorgente di tale comunicazione?
Qual è il primo passo per un educatore per stabilire vera comunicazione con ragazzi difficili?

Primo requisito è la pazienza dell’ascolto; un ascolto che richiede "ἐποχή", come segno di rispetto e forma di amore verso l’altro, contro ogni tentativo di adulterazione del messaggio.
Un ascolto che va oltre le parole; un ascolto che richiede tempo perché avvenga una narrazione autentica di sé e perché accadano storie di consegna di sé nella fiducia.
E’ importante ascoltare nel tempo come questi adolescenti si narrano, quali parole, quale linguaggio del corpo utilizzano. In un rapporto educativo gli scambi comunicativi non sono mai esaustivi, ma dirigono il rapporto verso un oltre, verso una nuova conoscenza di sé e dell’altro, verso una reciprocità inedita.
Un atto comunicativo, all’interno del rapporto educativo, è sempre un atto in divenire, un atto dinamico, capace di formare la personalità dell’educatore e dell’educando.

·               Quali sono i registri di questa comunicazione?
Dopo un ascolto attento, quali sono i linguaggi più appropriati per questi adolescenti?

C’è, innanzitutto, il registro narrativo.
E’ il registro più utilizzato nella Sacra Scrittura. Che cos’è il Cristianesimo se non una comunità narrante? Chi è Gesù se non una persona narrata? La Chiesa non è forse una comunità che narra, più che una comunità che argomenta ed interpreta?
C’è sempre il rischio, nella comunicazione educativa, di perdere l’innocenza narrativa, un po’ come è avvenuto nella storia con l’Ellenismo.
Con adolescenti difficili non basta enunciare discorsi, concetti, valori; i nostri ragazzi hanno bisogno di raccontarsi e di ascoltare narrazioni di vita vera.

C’è, poi, il registro simbolico (il simbolo evoca, rimanda a): è il linguaggio di Gesù.
E’ soprattutto quel linguaggio extra-verbale che rimanda ad un’ulteriorità di senso. Penso anche solo all’abito da suora dell’infermiera del IPM Beccaria o al colletto da prete: piccoli segni (σεμεια) che rappresentano non un modo per anteporre un ruolo (ancora nella logica del predominio), ma una cifra per svelare identità. L’adolescente ha bisogno di incontrare figure adulte definite. Anche l’abito dice chi sei.
Penso ai tanti linguaggi simbolici che gli adolescenti utilizzano per comunicare e rappresentare se stessi: il look, per esempio. Se un adolescente avverte che quel vestito, quel piercing e quella colorazione di capelli hanno effetto sugli altri, allora quello diventa il modo per affermarsi, per mettere in scena il proprio temporaneo copione. Così, anche solo un cappellino a visiera rigida che oscura il volto può meta-comunicare identità: quel cappellino può diventare parte integrante dello schema corporeo di un adolescente, un prolungamento dell’io. Perciò lo indosserà sempre, anche in classe a scuola e non basterà un perentorio “Togli quel cappello…” per convincere il ragazzo ad assecondare l’insegnante. Se tu adulto non cogli la portata simbolica di quel comunicare se stesso attraverso il cappellino sul volto, non potrai mai ottenere cambiamenti significativi.
Così, ancora, penso agli occhiali da sole in pieno inverno, magari nel buio di una sala giochi, che regalano all’adolescente l’emozione di potersi svelare quando vuole o di rimanere nascosto e misterioso. L’adolescente, in fondo, è un animale simbolico, costretto più di altri a costruire continue nuove rappresentazioni di sé.
Osservo il linguaggio dei tatuaggi sul corpo che rappresentano non tanto una moda trasgressiva, come erroneamente si è portati a pensare, quanto un segno della creatività dell’adolescente e del suo bisogno spesso disperato di comunicare, di rendersi visibile. E’ il linguaggio soprattutto dei ragazzi del carcere che si tatuano il corpo anche con mezzi “tribali” pur di affermare il loro esserci e pur di sentirsi legati a qualcuno di importante; molti di questi tatuaggi fanno riferimento proprio al loro mondo familiare e agli affetti più cari.

C’è, ancora, un registro esperienziale.
L’esperienza è il modo principale della conoscenza umana; il percorso di indagine del reale parte sempre da un esperire sensibile. Per un adolescente autore di reato, le modalità dell’arresto, il rito delle foto segnaletiche e delle impronte digitali in caserma, sono esperienze forti che hanno conseguenze a volte drammatiche e che segnano inesorabilmente il rapporto con se stesso e con le istituzioni.
Un educatore non può comunicare ciò che non vive; l’atto comunicativo rivela sempre la personalità dell’educatore, la sua coerenza e trasparenza, la sua visione del mondo e i valori a cui fa riferimento.
Come chi comunica la fede: in un’epoca che ha decretato la fine del regime di cristianità, non si può pretendere di comunicare la fede associandola alla trasmissione verbale delle fondamentali nozioni dogmatiche.
Parimenti, non puoi educare oggi, evocando semplicemente le regole, i divieti, le conseguenze punitive di certe azioni (“Non fare questo, non fare quello…se no vai in carcere”).
Quella sulle convenzioni non è una comunicazione convincente.
Il primo modo di comunicare è con la vita; prima di affinare altre competenze, ti devi chiedere cosa posso trasmettere (non solo come). Non devo convincere a forza un adolescente, non ho una verità da imporre, ma devo assumermi la responsabilità di un viaggio che è da fare insieme, come vera παιδεία.
In tal senso, l’ordinamento della giustizia minorile ha valorizzato il ruolo delle comunità educative di accoglienza, come luogo alternativo alla detenzione carceraria o come tempo di “messa alla prova”. La comunità educativa è luogo di comunione, di reciprocità nell’accoglienza del diverso da me e nel comune impegno di crescita verso un’autonomia possibile. Certo, non puoi accogliere un ragazzo in comunità sottoponendogli, come prima cosa, il regolamento scritto della struttura che lo accoglie.
La mia scelta personale di vivere in comunità con i ragazzi deriva proprio da qui: come educatore, come prete, non puoi sottrarti, devi camminare insieme, non puoi comunicare solo teorie. L’adolescente è un attentissimo osservatore: sa se il tuo parlare nasce da convenzione o da convinzione, dall’esperienza reale o solo dai libri.
L’esperienza è la migliore maestra, è il καιρός, il tempo opportuno per dare senso al proprio impegno di crescita; persino il reato può diventare esperienza che educa.
Osservo i codici linguistici di Gesù nel suo incontro con Zaccheo, così come con tanti altri personaggi del vangelo e percepisco uno stile educativo che ancora oggi mi affascina.
In Lc 19,1-10, si descrive in tre verbi l’azione educativa e comunicativa di Gesù: “Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse”. Ecco l’itinerario pedagogico giusto:
·               “giunse”, si fermò, non passò oltre: è l’esperienza dell’educatore che, davanti al disagio e al comportamento deviante dell’adolescente che ha di fronte, non fugge, non ha paura, ma si apre al confronto e decide di abitare quel luogo di conflitto e spesso di disperazione;
·               “alzò lo sguardo”, si prese cura di lui, ne ebbe compassione: è quel sentimento di pietas che non si traduce in atteggiamento di commiserazione distaccata, ma si configura come “farsi carico del dolore altrui fino a farlo diventare tuo”. E’ qualcosa più dell’empatia;
·               “e disse”, parlò: è l’ultimo atto di Gesù che non antepone le parole ai gesti di autentica amorevolezza espressi nei due verbi precedenti; è quel parlare che diventa autorevole perché viene dalla coerenza e non dall’affermazione di sé.
L’itinerario pedagogico è questo; non può avvenire il contrario. La comunicazione senza la comunione non è efficace. L’autorità stessa non è prodotta dalla logica del predominio, ma è ascoltata solo all’interno di un’esperienza di prossimità.
Un adolescente si fida e sperimenta un cambiamento solo se ciò che gli consegni è frutto di ascolto, di com-passione. Solo allora, ciò che dici ha autorità; solo così, tu educatore, sai orientare uno sguardo diverso, un oltre.
La rete, per un adolescente, è il luogo dell’ambiguità, del falso. E’ questa una generazione connessa che apprende facilmente tecniche di sdoppiamento, di moltiplicazione dell’io.
Ecco perché questi adolescenti hanno più che mai bisogno di incontrare persone reali e di comunicare con testimoni credibili.
Forse, anche per questo, alla fine dei nostri giorni non ci verrà chiesto quanto abbiamo creduto, ma quanto siamo stati credibili.

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